sabato 25 novembre 2006

Antonio Porchia


La morte del padre

Antonio, il primo di sette figli, tre femmine e altri tre maschi, ha circa quindici anni quando il padre muore: "Vedevo io un uomo morto. Ed io ero piccolo, piccolo, picco­lo...Dio mio! Che grande è un uomo morto". E' una riflessio­ne che certamente contiene l'impressione di quel corpo tra due dimensioni, una ancora terrena, l'altra avvolta nel miste­ro. Il mistero di spazi ignoti, divisi, anche nell'aldilà, tra bene e male, tra salvezza e -perdizione; una parte di quell'uomo sta già attraversando l'incognito con l'audacia che caratterizza gli eroi, gli esploratori, mentre lui, ancora inconsapevole della vita e della morte, lo vede immobile, lui, legato alla terra, pic­colo rispetto alla grandezza dell' essere non più appartenente al pianeta dei viventi.
Dolore, smarrimento, insicurezze, paure si aggiungono alla sofferenza della povertà già sperimentata, destinata ad aggra­varsi da quel momento in poi: "Il mio primo mondo lo incon­trai tutto nel mio scarso pane". Gli stessi sentimenti attana­gli ano gli animi degli altri componenti della famiglia, in misura differenziata dall' età. Antonio, per essere il più gran­de, si sente immediatamente lontano da quella nidiata, più vicino alla madre. La madre, una donna del sud, sola; non abi­tuata alle decisioni, perché di competenza del capo famiglia, impossibilitata a provvedere ai figli, non essendoci opportu­nità di lavoro per una donna. Dal padre, Antonio riceve la tra­smissione del ruolo maschile, che deve incominciare ad eser­citare come se alla sua età, improvvisamente, si fosse aggiun­ta quella patema: "Mio padre, andandosene, regalò mezzo secolo alla mia infanzia".
Quella morte chiude bruscamente la fase dell'infanzia, ferisce l'adolescenza nascente come un furioso temporale di fine inverno stronca i primi germogli nella vegetazione.

Nei funerali dei primi del Novecento, a Conflenti, il dolore celebra la sua apoteosi; un dolore manifestato, urlato, gestua­lizzato. Le prefiche, con i capelli sciolti, gli abiti neri, conti­nuano l'antica tradizione delle lamentazioni greche, che rie­cheggiano tra le cime dei monti all'unisono con il pianto sconsolato dei familiari, e quando costoro tacciono ponendo­si in ascolto della voce interiore, loro coprono quegli interval­li intensificando le cupe nenie, ritmate con le nocche delle dita. Una delle prefiche, precedendo la sfilata con un braciere ardente, completa il luttuoso apparato scenografico. Non sap­piamo se il funerale dei Porchia sia stato accompagnato da queste caratteristiche; ma, anche se svolto in modo essenzia­le, quelle immagini ricorrenti per le vie del paese sarebbero state spontaneamente evocate dalla consuetudine nel giovane Antonio.
Lui non tramanda le percezioni riportate da quei rituali, dalle parole, dai suoni, dai gesti, la cui semantica profonda viene assimilata direttamente dall' ambiente, senza mediazio­ni. Molto eloquenti, invece, alcune voci sul suo stato d'animo. Chiuso nel suo dolore, Antonio è intento in lui, "l'uomo...grande"; ne percepisce il silenzio della dipartita: "Lo spegnersi di un'anima è lieve, molto lieve, quasi silen­zio"; cerca di captare lo stato fisico di quelle mani: "Le tue mani, già quasi senza terra. Presto non si vedranno le tue mani"; avverte l'estremo tentativo della protezione paterna nel voler attenuare alla famiglia il dolore del crudele distacco: "Cadde come un'ala per non ferirti". La sollecitudine pater­na, però, non può tamponare le ferite della morte: tutto crol­la, le cose abituali non hanno più senso, il tempo si svuota: "Muoiono cent' anni in un istante, come un istante in un istan­te".
Succede spesso di esorcizzare paure inevitabili, desideri impossibili, necessità che non si possono soddisfare, così Porchia rimuove il bisogno di sapere la sorte ultraterrena, e di mantenere il legame con i propri cari: "Per quelli che muoio­no, questa terra è uguale alla più lontana stella. Non dovreb­be preoccuparti tanto quello che succede nella più lontana stella". E' solo un tentativo di mascheramento questo disin­canto di Porchia, che, come dichiara altrove, avverte la parte­cipazione dei cari morti ai dolori della sua vita9. Ricorrono anche momenti in cui il mistero avvertito davanti al corpo paterno impone la necessità di essere esplorato, e lui, ormai adulto, l’affronta e ne trae una forza essenziale alla vita: “ E quel domani che non arriva mai, arrivò. Ed ero morto. E senza di quella morte, io sarei stato un morto”10. … ….

9 Cfr., infra, "Il dolore"
10 Cfr., infra, “il tempo”.

Antonio Porchia


Giudizi

Libero Badii, scultore: " Parlava sempre della bellezza.
Mai raccontava episodi della sua vita, si collegava esclusiva­mente a temi astratti in relazione con la grande Armonia. (...) Le voci di Porchia sono autobiografiche minuto per minuto, una per una lo narrano, non alla maniera diretta del­l'uomo che dice come lo hanno addolorato le cose, ma alla maniera trascendentale dell'illuminato autentico". Daniel Barros: "Porchia è un artista, la
sua personalità ci è necessaria anche se lui non si occupa direttamente di pro­blemi particolari. Ha una posizione chiara nei confronti del­l'umanità. Dice che lui non lo vedrà, ma noi sì il raggiungi­mento di un altro stato di coscienza, perché: "questo non èmio, è di tutti".
Leòn Benaròs trova per Voces la definizione appropriata in "voci"; Vincenzo Capitelli le dice "opere aperte", il cui "carattere fondamentale è l'universalità senza esclusione del cosmico" .
Andrè Breton (nel suo libro "Entretiens") scopre in Antonio Porchia: "Il pensiero più duttile di espressione spa­gnola ".
J.L. Burgos: "Gli aforismi di questo volume vanno molto oltre il testo scritto; non si identificano in una conclusione senza un inizio; non si propongono di produrre un effetto. Potremmo avere il sospetto che l'autore li abbia scritti per se stesso e non credo si adegui agli altri l'immagine di un uomo solitario, lucido e consapevole del mistero singolare di ogni istante" .
Roger Caillois: "I suoi pensieri...non rivelano logica né psicologia, quanto piuttosto metafisica, una metafisica dove c'è da predire piuttosto che comprendere".
Vincenzo Capitelli dice delle voci: "Festa dell'ingegno, indubbiamente. Ma non si propongono l'ingegno, però sì la profondità. Non si vestono, anzi si svestono. Hanno un' eticità profonda, ma non enigmatica. Esprimono un pensiero polie­drico, a volte sfaccettato. Ogni voce è voce per ognuno. Sono"opere aperte ", in libertà, esposte ai venti di molteplici inter­pretazioni. Il loro carattere fondamentale è l'universalità, senza esclusione del cosmico".
Maurizio Chierici, in un articolo dedicato agli emigranti italiani d'oltre oceano, pubblicato sul "Corriere della Sera" (9 dicembre, 2000), afferma: "primo poeta a essere tradotto in francese e a incantare André Breton è Antonio Porchia" e ricorda che la "Nouvelle Revue Francaise" lo ha paragonato al premio Nobel Octavio Paz.
Antonio Coltellaro: "Porchia non è un autore facile.
Bisogna leggerlo ""a piccole dosi, evitando gli usi prolunga­ti ". Leggerlo, lasciandosi coinvolgere dal suo mondo e seguendo lo nei suoi viaggi tra il reale e l'immaginario; cer­cando, come dice lui stesso, non di sapere, ma di capire; spe­rando di essere colti, di tanto in tanto, dalle sue stesse folgo­razioni per avvertirne la profondità del pensiero. Impressio ante l'affinità con la filosofia buddista: uguale la concezione del mondo basato su un complesso di armonie, che svela non la vera realtà, ma il continuo divenire; uguale la percezione del tempo, visto in un susseguirsi di momenti presenti in cui vive il passato; un mondo dominato dal dolo­re, dove solo laforza e i legami dell'amore possono migliora­re la nostra esistenza e quella degli altri".
Daniel Gonzàles Duenas, Alejandro Toledo e Angel Ros, che inseriscono Porchia nella schiera degli scrittori "segreti" diffusi in circoli di lettori "iniziatici", affermano: "La critica letteraria arriverà a capire che le voci sono, più che un gene­re in se stesse, uno" spirito".
Roberto Juarroz: "Era un essere di un 'umiltà esemplare, ma nello stesso tempo con qualcosa di incontrovertibile, di immodificabile, che ci fa pensare a quegli alberi centrali attorno ai quali gravita l'intero bosco"; "Don Antonio, come lo chiamavamo, era una prova vivente della profondità del­l'essere, un luminoso esempio delle sue parole profonde e dei suoi gesti straordinariamente trasparenti".
Henry Miller include Voces tra i cento libri di una bibliote­ca ideale.
Alejandra Pizamik: in una lettera (aprile 1963) ringrazia Antonio Porchia per aver saputo esprimere l'ineffabile con parole capaci di suscitare la sensazione di trovarsi alla fonte dell' esistenza; in altra circostanza aveva detto: "Il suo libro è il più solitario, il più profondamente solo che sia stato scritto nel mondo, e ciò nonostante, rileggendo lo a mezzanotte, mi sento accompagnata, o, per meglio dire, protetta".
Alberto Luis Ponzo: "Porchia arriva all'esperienza poeti­ca totalmente inconsapevole, perché non si proponeva di arri­varci. E infatti, non si arriva a niente, tanto meno alla poesia, senza libertà di pensare, di vedere, di sentire".
José Pugliese: "Porchia era molto timido, molto introver­so, si metteva sempre nell'angolo più lontano della casa, e parlava poco".
Magdalena Saubidet: "Il suo pensiero, che ci ricorda in modo straordinario il taoismo, la parte più antica e vitale dello Zen, esclude la speranza ma non è disperato. E' quello che io considero un pensiero "tragico". La sua percezione totale delle cose, quasi fisica, si coniuga con l'idea del vado. Porchia sentiva dentro di sé "voci" di cui ignorava la fonte".
Completiamo questo excursus attraverso la critica con qualche battuta dell' autore. Alla scrittrice Inés Malinow che, in un'intervista del 1964, gli chiede perché il titolo Voces, risponde: "E' difficile dirlo. Tutto si ascolta. E si ascolta di tutto"; sulla sua appartenenza culturale si esprime con estre­ma modestia: "Non credo di essere nel surrealismo, non so definirmi perché io non sono niente"; poi, conclude: "Uno è un'infinità di cose. La certezza, chi ce l'ha? Il mio libro Voces è quasi una biografia. Che è quasi di tutti".

giovedì 23 novembre 2006

Il Paese di Antonio Porchia


Il paese d'origine di Antonio Porchia

Conflenti, secondo l'opinione più diffusa, trae il nome dal termine latino confluentes, che denota il sito alla confluenza di due fiumi.
E' stato edificato a mezza costa lungo un costone del Reventino, nella propaggine sud-occidentale del versante tir­renico silano, un comprensorio territoriale di grande interesse naturalistico. La variegata macchia mediterranea di mirti, ginestre, rosmarino, corbezzolo, rovi, attorno ai 500 m. lascia il posto a sugheri, querce, elci, olivastri, a cui subentrano castagneti e, nella quota più alta, pinete e abetaie. Nelle varie stagioni si alternano colori e profumi, fitta vegetazione e tron­chi spogli, tappeti di foglie macerate dalle piogge e alberi innevati. La natura litica del Reventino produce la pietra verde, utilizzata per il suo pregio nell' architettura eminente della regione.
Nell' orizzonte ondulato tra le cime collinari, laddove la vegetazione non ostruisca gli sguardi, si aprono scorci che offrono la vista del mare: un bagno d'azzurro nell'immersio­ne cromatica della flora montana.
La posizione collinare ben esposta e la ricchezza di sorgen­ti hanno offerto le condizioni idonee all' agricoltura e in parti­colare alla produzione ortofrutticola. Numerosi resti di muli­ni d'età medievale sulle sponde del torrente Salso attestano lo sviluppo produttivo degli stanziamenti delle origini.
I primi insediamenti vengono correlati dagli storici all'e­voluzione economica e sociale dell' abbazia di Corazzo, attor­no alla quale gravitarono numerosi centri.
Il nome originario figura per la prima volta in un documento del 1446 in cui è definita la rendita della chiesa di san Nicola.
I due attuali nuclei di Conflenti Superiore (originariamen­te detto Soprani) e Conflenti Inferiore (Sottani), alle origini, ebbero un'amministrazione separata ma un'unica gestione giuridica nella persona di un Mastro Giurato, che, scelto tra le famiglie nobili, manteneva l'ordine pubblico avvalendosi di quattro giurati. Nel riordino territoriale durante l'occupazione francese del regno di Napoli, i due borghi furono dichiarati Comuni e annessi al Cantone di Nicastro, finché nel 1861 si realizzarono in Comune unitario.
Anche se il nerbo dell'economia conflentese è stata l'agri­coltura (particolarmente apprezzati l'olio e il vino), si sono sviluppate notevoli attività artigianali nella manifattura dei vimini e nell' arte dolci aria, che hanno lasciato una cospicua tradizione di cui oggi si avvalgono piccole aziende a condu­zione familiare.
Persa una parte della sua popolazione con i primi flussi migratori oltre oceano tra la fine dell' Ottocento e i primi del secolo successivo, il paese ha subito una fortissima flessione demografica con l'emigrazione interna ed europea nella seconda metà del Novecento.
Ridotto a meno di un migliaio di abitanti, il paese si ripo­pola nei mesi estivi quando i conflentesi ritornano da ogni parte d'Italia, d'Europa e d'oltre oceano, richiamati dalla nostalgia e specialmente dal sentimento religioso per la "loro" Madonna, la cui ricorrenza festiva si celebra l'ultima settima­na d'agosto con la fase culminante nella giornata della dome­nica. Detta Madonna di Visora o della Quercia, attira pellegri­ni desiderosi di visitare il luogo delle ripetute apparizioni, verificatesi dal 1578 al 1579 sull'annoso olmo antistante il santuario, che, per espressa volontà divina, è stato edificato in quel sito.
In estate si popolano anche i borghi (un tempo agresti), in particolare San Mazzeo, che si è dotato di strutture ricettive riuscendo a conciliare lo sviluppo economico con il rispetto dell' ambiente naturalistico.

Tratto da Pillole di Saggezza di Vittoria Butera

Antonio Porchia


Antonio Porchia
La vita

Antonio, il primo di sette figli (tre femmine e quattro maschi) della famiglia Porchia, nasce a Conflenti il 13 novembre del 1885. Secondo una dichiarazione resa da lui, il padre, Francesco Porchia abbandona il sacerdozio per sposa­re Rosa Vescio, ed essendo difficile vivere in paese per lo scandalo prodotto, si trasferisce ad Avellino dove fa il com­merciante di legname. Questa versione, smentita da altri com­ponenti della famiglia, secondo i quali Francesco Porchia, pur avendo eseguito gli studi religiosi, non è mai stato ordinato sacerdote, suscita perplessità nella stessa cerchia degli amici, uno dei quali, lo scrittore Juliàn Polito, la giudica frutto della fantasia e commenta: "Probabilmente Porchia se l'inventò. Comunque, la storia è affascinante. Lui la raccontava così".
Nel 1900 Francesco Porchia muore all'età di cinquant'an­ni. Nel 1902, Rosa Vescio e i figli emigrano in Argentina imbarcandosi da Napoli con la nave "Bulgaria", di bandiera tedesca. Dopo una lunga navigazione, approdati a Buenos Aires, alloggiano in un'umile casa del quartiere Barracas. Antonio, che ha frequentato in Italia la scuola elementare, non può continuare a studiare, e per collaborare al sostenimento della numerosa famiglia cerca lavoro negli umili settori acces­sibili a un emigrante. Le difficoltà di questo periodo sono rin­tracciabili nell'opera: "Mi si apre una porta, entro e m'imbat­to in cento porte chiuse", concetto ribadito a distanza di anni: "Oggi non posso credere che altri hanno trovato calore dove io trovai freddo". I patimenti lontani non tardano ad affiora­re:"Il mio primo mondo lo incontrai tutto nel mio scarso pane"; "Un po' più di pane nei miei primi anni e il mio tutto sarebbe stato tutto quello che è tutto in tutti i miei anni".
Nonostante il lavoro lo impegni per oltre quattordici ore giornaliere, il giovane Antonio trova il tempo di frequentare la Federazione Operaia Regionale Argentina. Nel 1918, insieme al fratello Nicola acquista una tipografia, che procurando una certa prosperità economica consente alla famiglia di trasferir­si in un' abitazione più grande in via San Te1mo. Nel 1936, quando i fratelli sono già sposati, Antonio compra una casa in via San Isidro nel borgo di Saavedra, dove si dedica alla col­tivazione di alberi da frutto e di fiori, in particolare roseti; la casa è spaziosa e vi trascorre molto tempo in compagnia dei familiari. A questo punto, emerge l'orgoglio dell'uomo che è riuscito a progredire con le sue sole energie: "Prima di per­correre il mio cammino io ero il mio cammino". Il benessere economico non basta, può essere soltanto una delle due ali che servono per volare, ma, come recita una delle voci: "Un 'ala non è né cielo né terra"; inoltre, a ostacolare lo svi­luppo della seconda ala interviene l'insostenibile male del vivere con il vuoto che apre nella giornata: "Quando tutto è fatto, le mattine sono tristi".
Negli anni 1938/39 Porchia collabora con la rivista di sini­stra "La Fragua", su cui esordisce con alcuni dei pensieri sca­turiti dalle riflessioni quotidiane, che lui chiama voci. Frequenta gli artisti del quartiere portuale La Boca, tra cui cir­colano idee anarchiche e socialiste, e insieme, nel 1940, fon­dano "L'Associazione di Arte e Letteratura Impulso". Le scel­te politiche, oltre a specchiarsi nei valori delle voci, sono apertamente dichiarate: "Dappertutto il mio lato è il sinistro. Nacqui da quel lato". L'accenno alla nascita sembrerebbe fare ascendere l'appartenenza politica alla famiglia; tale ipotesi potrebbe spiegare lo spretamento del padre o, comunque, l'in­terruzione degli studi teologici per l'assunzione di idee socia­liste che all'epoca della giovinezza di Francesco (era nato il 1850) incominciavano a circolare anche nel sud Italia; se invece il riferimento alla nascita è metaforico, dobbiamo pen­sare a una seconda nascita, quella che il giovane Antonio opera nella terra lontana dai luoghi d'origine, con la forza della propria volontà¹.
Nel quartiere La Boca ricco di colore, riecheggiante delle sirene delle navi, degli odori del porto, con i vecchi bar dove i marinai bevono e ballano il tango, nel 1943, gli amici (spe­cialmente Miguel Andrés Camino e José Pugliese) convinco­no Porchia alla pubblicazione di "Voces"² .
Dopo il 1949, la sua opera, scoperta dal critico francese Roger Caillois, viene conosciuta in Europa e in America. Antonio Porchia si dimostra poco propenso a raccogliere gli echi del successo, e, pur tenendosi distante dal mondo della cultura ufficiale, accetta di leggere le voci nella Società Argentina degli Scrittori soltanto al tempo in cui Borges è il presidente. Ha una voce calda e suadente. Le sue recitazioni, incise su dischi, vengono trasmesse da un'emittente radiofo­nica di Buenos Aires a mezzanotte, per conciliare la riflessione.
In quegli anni, costretto da una crisi economica, Porchia vende la casa di San Isidro e si trasferisce a Olivos, alquanto lontano dalla città. La nuova dimora più che una casa è un riti­ro in cui il poeta incomincia a vivere in solitudine.
Porchia è uno dei pochi emigranti che non fa ritorno nella terra d'origine, anzi non si allontana dall' Argentina per nes­sun'altra destinazione; declina anche l'invito a visitare la Francia, dove conoscere i surrealisti e ricevere il premio inter­nazionale per autori stranieri assegnatogli dal Club del Libro. Sarebbe l'ora di emergere e riscuotere successo, ma non è questo il suo obiettivo: "Sono arrivato a un passo da tutto. E qui mi fermo, lontano da tutto, un passo", o, forse, quell' am­bizione è sepolta tra i desideri inappagati del passato: "Alcune cose mi sono talmente rassegnato a non averle che ormai non mi rassegnerei ad averle".
Nel ritiro di Olivos accoglie amici e giovani letterati con i quali s'intrattiene a parlare di poesia; tra questi Daniel Barros e Roberto Juarroz. La sua casa è modesta ma impreziosita da quadri e sculture che gli artisti di La Boca gli regalano. Anche se gli dispiace separarsene, per procurarsi il necessario Antonio è costretto a vendere qualche pezzo della pregiata collezione. Sono opere di artisti, come Petorutti, Victorica, Quinquela Martin, Castagnino, Soldi, Butler, Corner, tutti diventati famosi e ben quotati. Richiesto da Juarroz sulle sue preferenze, Porchia si pronuncia a favore di uno dei quadri più modesti con un cespuglio solitario nell'angolo di un giar­dino (forse, in quel cespuglio solitario vede riflesso se stesso). La sua immagine è immortalata nel bronzo dallo scultore Libero Badii, uno degli amici, che ama stare con lui per sen­tirlo parlare di bellezza, di armonia universale, di perfezione dell'istante. Nonostante sia vissuto sin dall'adolescenza tra gente di lingua spagnola, Porchia sa parlare molto bene l'ita­liano.
Nella descrizione che di lui fa Juarroz resta un'immagine ricca di semplicità e di poesia: "Non usava la camicia. A pri­mavera indossava un camice e in inverno si avvolgeva in uno sciarpone di tessuto grezzo chiuso con un gancio. Quando cenavo con lui, metteva in tavola una bottiglia di vino, for­maggio, pane e salame, che comprava al mercato. Con la stes­sa naturalezza prendeva la scopa per pulire la casa e la zappa per scavare una buca nel giardino dove collocare una pianta. Aveva il dono delle piccole attenzioni, come regalare una mela a mia moglie Laura". La placida povertà di stampo fran­cescano che si evince dal ritratto di Juarroz traspare dalla voce: "A volte trovo così grande la miseria che temo mi occorra".
Nel 1966, Porchia, cadendo da una scala, batte la testa ed entra in uno stato di sonnolenza e di delirio; rimosso l'emato­ma cerebrale, si ristabilisce per breve tempo. La morte lo coglie il 9 novembre del 1968, a pochi giorni dall'ottantatree­simo compleanno.
Numerose voci rispecchiano in modo diretto la vita del­l'autore; una si presta al commiato da questa biografia essen­ziale: "Cominciai la mia commedia essendo io il suo unico attore e la concludo essendo io il suo unico spettatore".

l La suddivisione della vita di Porchia in fasi è trattata nel paragrafo "Radici".
2 Sia le date delle edizioni che quelle biografiche di Porchia sono tratte da: D.G. Duenas-A.Toledo, "Antonio Porchia: el secreto compartido", Revista de Cultura #12-fortaleza, sao paulo-maio de 2001. Nei vari studi su Porchia la data­zione non è omogenea.
Tratto da Pillole di Saggezza di Vittoria Butera